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L’ ARTE SFUGGENTE DELLA NATURA.” IL FUOCO DELLA NATURA DIVAMPA AL SALONE DEGLI INCANTI

 

di Alice Ginaldi

 

 

Emblematica l’accoglienza a Trieste per noi “forestieri”. Quel tir che ha fatto il giro dei telegiornali regionali e nazionali. Un mostro simbolo dell’evoluzione scientifico/tecnologica dell’essere umano, abbattuto. Dopo dieci ore dall’accaduto la carcassa era ancora lì ribaltata, a contagiare una sorta di imbarazzo diffuso riguardo la sua ingombrante fisicità. Sono questi fatti, forse insignificanti nelle loro ripercussioni, che ci ricordano che la Natura non esiste per l’uomo, bensì nonostante l’uomo. E la sua forza ci rende vincibili, irrilevanti e vulnerabili, come quando i refoli di bora ci percorrono con la loro ondata di energia invisibile e imperscrutabile e sentiamo il brivido dell’assenza di gravità attraversarci. 

Conoscendo abbastanza bene la meravigliosa “basilica” dell’ex Pescheria, e sapendo il tipo di mostra che i due curatori, Marco Puntin e Jonathan Turner, sarebbero andati a proporre, mi sentivo fremere di curiosità e timore. Timore perché non c’è niente di più difficile per un curatore che allestire una mostra di opere in gran parte bidimensionali in un luogo maestoso, privo di pareti e sovraesposto alla luce come il Salone degli Incanti. Ebbene l’allestimento, progettato in collaborazione con Gian Paolo Venier e Luigi Semerani di elle(E)gi Architecture, si è rivelato davvero una piacevole sorpresa.L’idea è stata quella di articolare uno spazio asimmetrico e irregolare di pareti, all’interno del salone, che fosse in grado da un lato di contrastare la spinta verticale (vertiginosa) dell’edificio, dall’altro di predisporre il pubblico ad una mostra d’arte contemporanea, per cui indissolubilmente legata ad una fruizione “site specific”. Le diverse aree spigolose ed eccentriche, mi racconta Venier, si alternano a stanze regolari di “decompressione” in cui i visitatori si ritrovano a percepire uno spazio tradizionale; l’altezza delle pareti divisorie è nettamente superiore a quella canonica per dialogare con l’altezza del soffitto e tutte le pareti irregolari sono cadenzate da una bombatura a spigolo che ne spezza ulteriormente la fissità. Inoltre sono fruibili anche gli spazi “dietro le quinte” destinati ad un’area didattica con libri tematici sulla natura e la possibilità di partecipare a laboratori per bambini.

Passiamo ora ai contenuti. I curatori hanno invitato 82 artisti, provenienti da diversi Paesi del mondo, interfacciandosi con altrettante Gallerie e prestatori. L’idea nasce dall’intento di restituire un po’ dell’immensa bellezza che la natura è in grado di offrire, declinata nelle varie tipologie di “ritratti”, intesi come virtuosismo pittorico o fotografico, paesaggistica montana, video di denuncia ecologica e sociale, alcune opere di protagonisti della Pop Art, cui accosterei un’ultima categoria di lavori che si avvicinano alla natura trasversalmente, per vie concettuali. In generale opere di grande formato, nell’intento di declinarsi proporzionalmente all’imponenza dell’edificio. Ci sono intramontabili opere di grandi autori del Novecento che hanno segnato indelebilmente le pagine della storia dell’arte: Ansel Adams, con la sua spinta alla ricerca di un rigore compositivo nel paesaggio, Robert Mapplethorpe, e la sua risessualizzazione delle forme della natura, Urs Lüthi, con un commovente riverbero sull’acqua, Andres Serrano, con uno zoom su una natura dall’aspetto plasticoso e artificiale, e l’indimenticabile Nan Goldin, solo per citarne alcuni. Poi gli italianissimi, come uno dei protagonisti della new wave, Olivo Barbieri, magico sperimentatore della percezione visiva in fotografia, e Mario Giacomelli con i suoi paesaggi dediti a un pittoricismo d’astrazione. Proseguendo con gli storici, incontriamo alcuni protagonisti americani degli anni ’60 come Bob Rauschenberg, con un collage di nature morte cittadine, Jim Dine, con una litografia dal sapore Art Brut degli anni Ottanta, e infine James Rosenquist, che presenta un olio su tela del 2005 di gusto Neo Pop, del tutto simile all’asfittico kitsch esasperato delle tele di Jeff Koons. Davvero notevoli i video di Ana Mendietadegli anni ’70, un appassionato viaggio all’interno della verace contestazione di quegli anni. Poetico l’uomo/uccello spinto alla deriva dalle onde e intenso il video in cui il corpo femminile, viene simbolicamente assorbito dalla terra, incastonato in una piccola porzione di natura dimenticata.

Ora passiamo alla rinvigorente aria giovanile delle “nuove proposte” che, con una freschezza a tratti inaspettata, sono stati in grado di ritemprare il percorso espositivo, a tratti un po’ troppo monotono e didascalico. Certo non deve essere stato facile per i curatori far convivere le scelte personali con le scelte più (concedetemi il termine) politiche e di pubblico, dettate da una mostra di queste proporzioni. Sta di fatto che per qualsiasi persona che abbia un po’ di dimestichezza con l’arte contemporanea, non nego che possa risultare a tratti avvilente trovarsi di fronte a un numero esagerato di paesaggi e fiori all’interno di una mostra sulla Natura. Ma credo (anzi, l’ho potuto constatare con i miei occhi) che anche il pubblico più inesperto possa trovare maggior gratificazione di fronte a un lavoro che sia in grado di porre delle domande e di scatenare dei dubbi, prima che affascinare per il virtuosismo tecnico o la presunta “bellezza” di un paesaggio che, siamo sinceri, a lungo andare stufa. E all’ennesimo straordinario paesaggio, più di uno spettatore si è fatto scappare uno sbadiglio. Nel 2012 poco può stupire veramente e la spettacolarizzazione e il sensazionalismo dell’arte hanno ormai fatto il loro tempo.

Ma torniamo ai nostri giovani. Gabriele Bonato, nel suo inscalfibile attaccamento alla tecnica, è riuscito a regalarci un ritratto della natura naturans che ha fatto sorridere chiunque: uno statuario chihuahua, meticolosamente riprodotto a matita, ci fissa con i suoi occhioni. L’effetto specchio riflesso è immediato e più che chiederci perché ha scelto proprio quella razza di cane ci domandiamo quanto anche noi esseri umani dobbiamo sembrare ridicoli, visti da fuori. Proseguiamo con Matteo Attruiae la sua “Natura morta” consistente in un pezzo di guardrail impiantato in un fondo terroso. Il sarcasmo che distingue la poetica dell’artista si è qui trasformato in ironica sagacia, veicolando un messaggio non immediatamente leggibile. Ancora Stefano Graziani, fotografo che lavora in quel sottile scarto che si crea tra Galleria d’Arte e Museo, presenta al Salone degli Incanti alcune fotografie di animali impagliati e studi scientifici, riuscendo, ancor più in una mostra sulla natura, a farci ragionare sulla caducità. Similmente Francesca Martinelli propone una personale wunderkammer, camera delle meraviglie Settecentesca in cui erano raccolti reperti curiosi, rare deformità naturali e esperimenti scientifici. Nel suo armadio animali impagliati ci fissano impauriti e diversi ex voto sembrano invadere lo spazio circostante fino ad arrampicarsi sui muri, nel disperato tentativo di una comunicazione con l’aldilà. Un rapporto natura/cultura che certo cerchiamo sempre di negare e spesso fingiamo di deplorare. Si crea nello spettatore uno schizofrenico pensiero interiore: che disumani gli esseri umani VS non riesco a smettere di guardare… Il giardino dell’Eden di Manuel Fanni Canelles invece, si pone come un lavoro citazionista e ironico digitalizzato, in cui il senso di attesa rapisce lo spettatore nella convinzione che qualcosa accada da un momento all’altro.

Ancora in questo contesto alternativo alla presentazione didascalica e un po’ retorica della natura inserisco l’artista Carlo Bach, che propone una versione antropomorfizzata del pendolo di Foucault con la semplicissima operazione di sostituzione del pendolo con una mano bronzea che indica il pavimento e produce una serie di solchi su un fondo sabbioso. Più banali in questo contesto ma assolutamente da citare i lavori presentati da Darren Almond, Luca Campigotto, Massimo Crivellari e Elger Esser. Fotografie in un è accentuata l’essenza stessa che comanda questa pratica ossia la certezza dell’esistenza di quello che ci viene presentato, esponendoci, senza troppi fronzoli, a paesaggi e realtà non più fruibili allo stesso modo.

Nella speranza che i diversi quesiti etici, oltre che “estetici” e mondani, abbiano davvero fatto breccia nel pubblico impellicciato dell’inaugurazione (mi ci metto pure io), non mi resta che tornarmene a casa passando di nuovo davanti a quella carcassa ribaltata difronte a Piazza Unità che inaspettatamente mi rimanda al mostro nero spiaggiato di Sergio Ragalzi. Una volta in più dico grazie a Matteo Attruia e compagni che con i loro guardrail e salvagenti hanno probabilmente salvato dalla bora impietosa un notevole numero di turisti impreparati. Nel complesso mi sento di dire che sicuramente è una mostra da non perdere con interessanti spunti, diversi artisti non così accessibili in Regione e una concezione allestitiva da imitare.

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