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PAROLE DELL'ETICA, PAROLE DELL'ARTE

 

 

di Fulvio Dell'Agnese

 

Nella Paneròpoli di Hans Tuzzi, dove i semafori rossi sono sempre abitati dal rombare impaziente di “torreggianti fuoristrada nei colori dell’arroganza e dell’aggressività” e dove di sera ci si chiede se il sindaco, come promesso, sarà presente “al vernissage di quel vacuo pretesto chiamato mostra”, apparenza e ostentazione regnano sovrane.

In simile contesto, che vorremmo poter confinare nelle pagine di un romanzo, anche l’arte pare aver pubblicamente assunto una nuova o riveduta funzione; anzi, una “mission”: quella di dare corpo a spot espositivi come la grande mostra sul “Rinascimento a Firenze” in Cina, che intendono proporre come stroboscopico compendio d’italico pedigree preziose opere cardine di una grande stagione culturale astraendole avventurosamente dal loro contesto; o di mettersi in posa, dando modo all’attenzione mediatica di focalizzarsi su isolati episodi di premurosa sollecitudine nei confronti dell’unico indiscusso “patrimonio” del Paese – di volta in volta incarnato, per restare in riva all’Arno, da una rediviva scultura di Michelangelo o dai presunti resti della Battaglia di Anghiari – dietro ai quali si celano la progressiva demolizione degli organismi preposti alla sua reale tutela e la silenziosa asfissia dell’istruzione che ne dovrebbe garantire il consapevole dialogo con le nuove generazioni di cittadini.
“E allora?”, dirà qualcuno. Materia per un articolo pungente in terza pagina, o meglio per la sparata di qualche critico telegenico nel ventre di un talk-show; non per un convegno sullo scrivere d’arte, che al Centro Iniziative Culturali di Pordenone si organizza per il sesto anno.
Invece accade che su tali argomenti dipanino i propri ragionamenti anche storici dell’arte come Tomaso Montanari, che agli studi su Bernini e sul ‘600 romano ha di recente affiancato non meno scientifiche pubblicazioni sul ruolo odierno delle opere artistiche e della disciplina che le indaga, in cui rileva ad esempio che “quasi nessuno pensa ormai alle mostre in termini di educazione, istruzione, ricerca o crescita culturale”; l’obiettivo è divenuto invece quello “di vendere al meglio il nostro patrimonio culturale, attraverso una radicale innovazione del marketing”, azzerando la scomoda consapevolezza che “la rendita prodotta dalle opere d’arte non è economica, ma intellettuale e culturale” e alimentando un “culto del capolavoro simbolo” che risulta particolarmente “delittuoso in un Paese la cui unicità consiste nella densità di un patrimonio diffuso e inseparabile dal paesaggio urbano e naturale”… Inseparabile dall’idea stessa di coscienza nazionale.
Opinione di Montanari – ampiamente condivisibile, ci pare – è che una mancata presa di posizione di fronte a tale realtà si configuri come una “rinuncia dello storico specialista ad adempiere al suo "ruolo culturale”, lasciando via libera a una deriva televisivosalottiera della disciplina, su un magnetico orizzonte in sedici noni che “dagli affreschi di Leonardo occultati dietro ai muri” si allarga “al marketing delle attribuzioni improbabili”.
La scrittura d’arte sembra dunque contemplare, oggi, la necessità di esprimersi in contesti diversi (dal blog al saggio scientifico, nel caso del nostro ospite), secondo registri di stile non necessariamente alternativi, certamente legati a una medesima responsabilità, divenuta di ordine sociale.
Ma cosa accade quando – come nei video di Manuel Fanni Canelles – l’opera d’arte viene riscritta in una dimensione visiva, più prossima a quella della sua espressione originale? Si entra ovviamente nel campo della creazione artistica in senso pieno, ma la sottile metamorfosi del modello esige una altrettanto chiara coscienza critica dell’immagine fissata in partenza.
Nella serie dei suoi Senza tela – alcuni dei quali saranno visibili nei giorni di “Pordenonelegge” negli ambienti della nuova ala del Centro Culturale Casa A. Zanussi – Fanni Canelles concentra lo sguardo su dipinti di straordinaria perfezione, a cui egli apparentemente sottrae un definitivo punto d’approdo della forma, dilatando nel tempo la riconoscibile icasticità del fermo-immagine.
In realtà, la loro compiutezza viene fatta coincidere proprio con una necessaria evoluzione del sentire, dell’emozione espressa dai personaggi e dalla situazione, quasi essa implicitamente premesse da sotto la superficie degli oli antichi; quasi l’artista desse corpo a una delle magie sonore della scrittura longhiana descritte da Ezio Raimondi, ovvero la capacità di tradurre “l’istante del dipinto in narrazione, l’immagine in racconto”.

 

 

PORDENONELEGGE 2012_ CONVEGNO "L'ARTE DI SCRIVERE D'ARTE"

 

 

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